Proseguendo
in questa veloce ricognizione di percorsi
nell’architettura vorrei dedicare qualche
osservazione al nostro paese e alla sua attuale
condizione. Come si è potuto constatare
seguendo alcuni eventi sismici, come quello
dell’Aquila e il più recente
in Emilia, l’Italia è molto fragile.
Lo è perché il nostro territorio
è soggetto, oltre che ai terremoti,
a una serie impressionante di frane, di smottamenti,
di inondazioni. Questi fenomeni sono solo
in parte naturali, moltiplicando i loro effetti
a causa della scarsa manutenzione degli ambienti
montani, agricoli e urbani, della devastazione
ambientale che, soprattutto a causa dell’abbandono
crescente di superfici coltivate lascia indifeso
il suolo, di edificazioni improprie, dell’abusivismo,
che ha compromesso un grande numero di aree,
in particolare dal Centro verso il Sud, della
qualità non sempre buona delle costruzioni,
anche di quelle di valore storico e architettonico.
Discende da questa situazione la necessità
di ricostruire letteralmente gran parte del
territorio italiano e di provvedere a un esteso
consolidamento del patrimonio edilizio e monumentale.
Ciò che attende quindi le ultime generazioni
di architetti è un lavoro di restauro
territoriale, urbano e architettonico che
non potrà limitarsi però ad
un’attività tecnico-amministrativa,
ma dovrà aprire spazi creativi. Si
tratta di un impegno di livello mondiale in
quanto l’Italia è meta da sempre
di milioni di visitatori essendo nel suo complesso
un museo plurale dal quale dipende per molti
aspetti la stessa idea di arte. La seconda
emergenza mondiale da fronteggiare è
quella della insoddisfacente qualità
della vita nelle nostre città. La questione
ambientale è oggi, come si è
già detto all’inizio di queste
note, il paradigma principale per misurare
l’abitare. Occorre trovare mezzi adeguati
per ridurre gli sprechi, tra i quali, al primo
posto il consumo di suolo; c’è
bisogno di incrementare il riciclo pensando
alla questione dei rifiuti in modo alternativo
all’attuale. Si renderà necessario
risolvere la vistosa contraddizione tra l’esigenza
di strutture per la captazione delle energie
rinnovabili e l’opposizione ad esse
da parte di Italia Nostra, chele vede come
presenze incongrue nei confronti della scena
naturale. Un paradigma che si intreccia con
urgenti questioni sociali, o tra le quali
emerge la necessità di offrire alla
città multiculturale opportune possibilità
di rappresentazione. È noto a tutti
ce nel nostro paese la presenza di consistenti
nuclei di cittadini provenienti da molti paesi
del mondo è un fatto non ancora compreso
e accettato in tutte le sue implicazioni.
Esso continua a essere considerato come un
problema, mentre l’apporto di nuovi
valori culturali e di nuove energie produttive
non è stato inserito tra i fattori
evolutivi più promettenti. Le città
italiane hanno visto nella seconda metà
del secolo scorso ampliarsi in modo vertiginoso
generando periferie dense e anonime, veri
e propri terrain vague che hanno soffocato
i centri storici. Lo spazio pubblico è
ormai qualcosa di residuale, un resto insediativo
che non è più capace di ospitare
attività collettive. Il verde, quando
c’è, è lasciato a se stesso.
Il tessuto residuale è sensibilmente
degradato, al punto che in molti casi dovrebbe
essere demolito e ricostruito utilizzando
i criteri della sostenibilità. Il trasporto
pubblico soffre la crescente aggressione di
quello privato. Per questi motivi occorre
urgentemente riprogettare quasi del tutto
le nostre città, elevando in ogni sua
parte il livello dell’abitare. Si tratta
di rigenerare il tessuto urbano in sintonia
co tutto ciò che può rendere
la compagine sociale più solida. Per
raggiungere nel modo più efficace e
duratura la ricostruzione dell’Italia
all’insegna di un profondo rinnovamento
di mentalità, di obbiettivi e di strumenti
occorre parallelamente comprendere le ragioni
che hanno visto negli ultimi due decenni la
nozione di paesaggio divenire centrale. Il
dibattito teorico europeo ha infatti identificato
nella dimensione paesistica il simbolo stesso
della cultura del continente rimettendo così
in discussione le idee di territorio, di città
e anche di edificio. Tutto è oggi paesaggio,
con il risultato per un verso positivo di
favorire una estesa riscrittura degli elementi
che definiscono l’abitare, per l’altro
negativo di smarrire la specificità
dei singoli aspetti dell’ambiente costruito,
immersi in una continuità descrittiva
che ne attenua fortemente la riconoscibilità.
La prevalenza della questione paesistica ha
una grande influenza sulle problematiche urbane.
Mi limito a citare l’ipotesi della rinaturalizzazione,
vale a dire l’inserimento nella città
di zone sottratte all’edificazione,
o liberate dai manufatti che le occupano,
per restituirle a un verde più vicino
a quello agricolo che a quello di parchi e
giardini. La terza emergenza è di ordine
macrostrutturale. L’Italia è
un paese di regioni e di città, vale
a dire che esso presenta come base del disegno
insediativo una struttura reticolare che attiva
ogni parte del territorio. Attualmente questa
struttura reticolare si presenta interrotta
in più punti, in altri obsoleta, in
altri ancora contaminata. Questa rete, di
cui fanno parte vaste aree nelle quali la
centuriazione romana è ancora largamente
operante, si è sovrapposto il sistema
delle infrastrutture ferroviarie, autostradali
e aeroportuali, aggravando la loro condizione
fisica e funzionale. Un recupero capillare
della struttura reticolare consentirebbe di
riscoprire la misura reale del paesaggio italiano
consentendo di viverlo nella straordinaria
varietà che esso presenta e nella bellezza
residua che ancora è possibile ammirare.
Perché questo progetto possa essere
realizzato occorrerà comunque superare
gli ostacoli derivanti da alcuni aspetti della
cultura italiana, non solo architettonici.
Il primo è la soggezione alla storia.
In Italia la dimensione del passato prevale
talmente tanto sul presente e sul futuro da
contrastare costantemente la ricerca del nuovo.
Nell’architettura questo primato ha
trovato una sorta di compromesso nella formula
mediana di un rapporto equilibrato tra tradizione
e innovazione. Una formula che per più
versi finisce con il diminuire il senso di
ciascuno dei due termini producendo opere
dal carattere incerto e ambiguo. Un altro
aspetto ostativo nei confronti del progetto
di ricostruzione dell’Italia deriva
da una sottovalutazione, almeno nell’architettura,
della tecnica. Permeata dall’idealismo,
ibridato da una forma attenuata di marxismo,
dalla fenomenologia, dallo strutturalismo,
dalla decostruzione del pensiero debole la
cultura architettonica italiana ha sempre
diffidato di qualsiasi ricerca che non riguardasse
i fondamenti, i principi primi, emarginando
così tutto il mondo della sperimentazione
relativa all’ambito della costruzione
e, più esternamente, delle scienze
ambientali. Il terzo aspetto che si interpone
tra il progetto che ho esposto e la sua concretizzazione
consiste nella diffusa prevalenza nella riflessione
storica e critica del modello della crisi
come chiave interpretativa dell’architettura
italiana. In poche parole il modello della
crisi implica un pregiudizio radicato, che
si identifica nel diffuso non credere di essere
all’altezza dei problemi da risolvere.
Tutta la storiografia dell’architettura
italiana è pervasa infatti dall’idea
di difficoltà, di fallimento. Leggendo
gli scritti di Edoardo Persico, Ernesto Nathan
Rogers, Giulia Veronesi, Ludovico Quaroni,
Manfredo Tafuri e molti altri si incontrano
infatti scenari cupi fino alla tragedia, ripetute
narrazioni di disillusioni e di cadute. Questa
inclinazione per una congenita negatività
dell’architettura italiana nasce forse
da un complesso di colpa, originato dal fatto
che l’architettura moderna non l’abbiamo
inventata noi, ma siamo stati costretti a
importarla da fuori. A questi aspetti va aggiunto
il fatto che l’Italia non ha voluto
internazionalizzarsi per davvero. Pur essendo
uno dei dieci paesi più industrializzati
del mondo ha conservato, soprattutto attraverso
la lingua, un suo isolamento il quale, molto
apprezzato dalle élite culturali di
molti paesi, non ha permesso all’Italia
di riconoscersi come appartenente veramente
al circuito mondiale. Anche per questo motivo
la lingua architettonica italiana, se così
si può chiamare la media linguistica
degli edifici progettati e costruiti dai nostri
architetti, è ritenuta molto sofisticata
ma in realtà è conosciuta e
parlata da pochi, anche se selezionati, italofili,
quegli storici, quei critici, e quegli architetti
- Peter Eisenman, Jean-Louis Cohen, Joseph
Rykwert, tanto per fermarsi a tre - che identificano
nell’architettura italiana un riferimento
essenziale.